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Nick spermasd
Nome GIANNi08
Sesso M
Livello Utente normale
Località agropoli e merdSXD
Età N.D.
SitoWeb N.D.
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Iscritto dal 15/11/2007 22:15:25
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La Peste di Albert Camus

Prima parte

Orano un giorno d’aprile 194., il medico Rieux scopre il cadavere di un ratto
sul suo pianerottolo. Il portinaio, il signor Michel, pensa che siano dei
burloni che si divertono a mettere questi cadaveri di ratti all’interno
dell’edificio. A mezzogiorno, Rieux accompagna alla stazione la moglie che,
malata, parte a farsi curare in una città vicina. Alcuni giorni più tardi,
un’agenzia di stampa annuncia che più di sei mila ratti sono stati raccolti quel
giorno. L’allarme aumenta. Alcune persone iniziano a prendersela col sindaco.
Quando, improvvisamente, il numero di cadaveri diminuisce, le strade tornano
pulite, la città si crede salva.
Il Signor Michel, il portinaio, cade però malato. Rieux tenta di curarlo, ma la
malattia peggiora rapidamente. Rieux non può fare nulla per salvarlo. Il
portinaio soccombe ad un male violento e misterioso.
Rieux è chiamato da Grand, un dipendente del Municipio. Ha appena impedito ad un
certo Cottard di suicidarsi. Le morti si moltiplicano. Rieux consulta i suoi
colleghi. Il vecchio Castel, uno di loro, conferma i suoi sospetti: si tratta di
peste. Dopo molte riserve e lungaggini amministrative, Rieux ottiene che le
autorità prendano coscienza dell’epidemia e si decidano a“chiudere” la città.

Seconda parte

La città si chiude poco a poco nell’isolamento. L’isolamento e la paura
modificano i comportamenti collettivi ed individuali: “la peste fu un affare di
tutti”, nota il narratore.
Gli abitanti devono convivere con l’isolamento sia all’esterno che all’interno .
Incontrano difficoltà a comunicare con i loro genitori o i loro amici che sono
all’esterno. Fine giugno, Rambert, un giornalista parigino separato della sua
compagna, domanda invano l’appoggio di Rieux per raggiungere Parigi. Cottard che
aveva, in aprile, per ragioni sconosciute tentato di suicidarsi, sembra provare
una insana soddisfazione nella disgrazia dei suoi concittadini. Gli abitanti di
Orano tentano di compensare le difficoltà dell’isolamento, abbandonandosi ai
piaceri materiali. Grand, il dipendente muncipale, si concentra sulla scrittura
di un libro di cui riscrive ossessivamente la prima frase. Padre Paneloux indica
la peste come lo strumento della punizione divina e chiama i suoi fedeli a
meditare su questa punizione mandata ad uomini privi di qualsiasi spirito di
carità.
Tarrou, figlio di un procuratore e straniero alla città, tiene nei suoi
taccuini la sua cronaca dell’epidemia. Egli ha grande fiducia nell’uomo. Dà
prova di un coraggio straordinario e si mette a disposizione di Rieux per
organizzare un servizio sanitario di emergenza. Rambert si aggrega ai due.

Terza parte

È l’estate, la tensione monta e l’epidemia cresce esponenzialmente. Ci sono
tante vittime che occorre d’urgenza gettarle nelle fosse comuni, come animali.
La forza pubblica è obbligata a reprimere rivolte e saccheggi. Gli abitanti
sembrano rassegnati. Danno l’impressione di avere perso i loro ricordi e la loro
speranza. Non nutrono più illusioni e si limitano ad aspettare...

Quarta parte

Questa sezione occupa l’azione che si svolge da settembre a dicembre. Rambert
ha avuto l’opportunità di lasciare la città, ma rinuncia a partire. È deciso a
lottare fino alla fine a fianco di Rieux e di Tarrou. L’agonia di un bambino,
figlio del giudice Othon e le sofferenze provate dal piccolo innocente scuotono
nell’intimo Rieux e minano le certezze di Padre Paneloux. Il prete si rinserra
nella solitudine della propria fede, e muore senza avere chiamato i medici,
stringendo febbrilmente al petto un crocifisso. Tarrou e Rieux, conoscono un
momento di comunione amichevole prendendo un bagno d’autunno in mare. A
Natale, Grand cade malato e lo si crede perso. Ma guarisce sotto l’effetto di
un nuovo siero. Dei ratti, riappaiono nuovamente, vivi.

Quinta parte

È il mese di gennaio e la peste regredisce. Fa tuttavia le ultime vittime: Othon
quindi Tarrou che muore, serenamente a casa di Rieux. Affida i suoi taccuini al
medico. Da quando è evidente la
regressione del flagello, l’atteggiamento di Cottard è cambiato. È arrestato
dalla polizia dopo una crisi di follia.
Un telegramma arriva a Rieux: sua moglie è morta.
All’alba di una bella mattina di febbraio, le porte della città si riaprono
infine. Gli abitanti, assaporano finalmente di nuovo il gusto della libertà ma
non dimenticano la terribile prova “che li ha messi di fronte all’assurdità
della loro esistenza ed alla precarietà della condizione umana.”
Si apprende infine l’identità del narratore: è Rieux, che ha voluto riferire
questi eventi con la più grande obiettività possibile. Sa che il virus della
peste può ritornare un giorno e chiama alla vigilanza.
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Rileggo La peste, pur avendo una pila pericolante di unread: ci sarà un perché.
Di certo con le riletture si va abbastanza sul sicuro, e più a fondo. La
compiuta e composta allegoria che Camus mette insieme tra il 1946 e il 1947 non
mi ha deluso (nelle riletture, può succedere). Abbastanza curioso, per altro,
leggere le pagine col computo dei morti gionalieri nell’epidemia di Orano
proprio mentre i TG dicevano “oggi tot morti di SARS”.

Ma la peste che Camus racconta non è una malattia; semmai LA malattia delle
comunità umane; un flagello imprevedibile ed inevitabile quando capita. Così
come lo è, per i semplici individui e le comunità, una guerra come la Seconda
mondiale, con quanto di particolarmente terribile l’ha accompagnata. (Uno dei
passi finali del romanzo, quando l’epidemia è finita e le coppie separate dalla
quarantena si ritrovano: “Queste coppie estatiche, strettamente unite ed avare
di parole, affermavano in mezzo al tumulto, col trionfo e l’ingiustizia della
felicità, che la peste era finita e che il terrore aveva fatto il suo tempo.
Negavano tranquillamente e contro ogni evidenza che noi avessimo mai conosciuto
un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana (...) negavano
insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una
parte, stipata nella bocca di un forno, evaporava in fumi grassi, mentre
l’altra, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo
turno.”

L’allegoria della guerra è qui abbastanza trasparente. Come pure in quel
“194...”, anno in cui si svolgono i fatti.

Cambiano le persone, sotto un flagello inarrestabile come la guerra o la peste,
e Camus ne mette in scena i tipi con una leggerezza ed una misura forse dovuti
proprio alla guerra appena passata. Ci sono quelli che si danno da fare per
combattere il flagello, senza risparmiarsi (Rieux, Tarrou, Othon), quelli che si
chiudono in casa o cercano di scappare (molti dei cittadini di Orano), quelli
che approfittano per arricchirsi (Cottard), quelli che accettano con la cecità
bigotta della fede il flagello (Paneloux); quelli che si sentono a poco a poco
sempre più coinvolti e consapevoli, e prima cercano di scappare e poi si
uniscono alla lotta (Rambert).

E c’è la morte quotidianamente presente che tutto cambia, che lascia il segno
anche quando l’epidemia è finita e si ritrovano i famigliari e gli amici
dispersi; la morte inattesa e collettiva che non è mai debellata del tutto (“Il
microbo della peste non muore mai”, fa dire Camus al suo narratore, “e può
restare dormiente per decenni, ma non scompare”: la guerra potrà tornare, fuor
d’allegoria).

In questo quadro narrato con assoluta verosimiglianza Camus espone di nuovo il
suo umanesimo pessimista e fatalista; ma anche l’importanza degli affetti e
dell’agire individuale, anche quando appaiono vani. e anche, per bocca di
Tarrou, l’inaccettabilità dell’assassinio e della morte, anche quando dovuti a
semplice indifferenza.

Come per Canetti (“se credessi in Dio non potrei mai perdonargli la morte degli
uomini”), la morte per Camus va sempre combattuta, anche quando è vano, fatale;
ma ancor più quando è il risultato di scelte - ed entrambi le possibilità sono
sempre in agguato. Una tesi decisamente non superata dai decenni trascorsi, si
può facilmente chiosare.

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